martedì 24 febbraio 2009
Giacinto Coldani (2)
Nel 1717, dopo un silenzio quasi decennale (dovuto sicuramente alla lacunosità delle nostre fonti), la famiglia Coldani riappare negli Stati d'anime come residente alla Rampina. Rispetto alla precedente notizia del 1708, mancano Antonio e Francesca (morti? sposati?), ma è presente l'ultimogenita Lucia. La famiglia è ancora registrata alla Rampina dal 1718 al 1721, ma nell'ultimo anno non compaiono più Giacinto e Angela Francesca. (Per la segnalazione di questi Stati d'anime ringrazio Doretta Vignoli.)
Allo stato attuale delle ricerche non siamo in grado di precisare il curriculum scolastico del Coldani né quando e come maturò la sua vocazione ecclesiastica.
A quei tempi il seminario costituiva la strada per il sacerdozio solo per una minoranza degli aspiranti. Molti chierici compivano gli studi in collegi o scuole di religiosi, o trasferendosi in casa di un sacerdote già esperto. La curia arcivescovile verificava la maturità dei candidati prima di ammetterli agli ordini e concedeva la licenza di celebrare messe, amministrare i sacramenti e tenere scuola, secondo le regole fissate dalla legislazione diocesana. (Per le notizie sul reclutamento del clero secolare nel XVIII secolo ringrazio l'amico Marco Gerosa, che mi ha indirizzato a un saggio di Danilo Zardin.)
Il Coldani probabilmente non frequentò il seminario. I registri delle ordinazioni, conservati nell'Archivio storico della diocesi di Milano, indicano esplicitamente la provenienza di un candidato dai seminari diocesani, ma per il Nostro è indicata solo l'appartenenza alla prepositura di Melegnano o, più genericamente, alla diocesi di Milano.
Il 16 dicembre del 1718 il Coldani ricevette la tonsura; il 23 febbraio 1720 gli ordini minori; il 21 settembre dello stesso anno il suddiaconato; il 21 dicembre il diaconato. L'8 marzo 1721 finalmente venne ordinato sacerdote.
In vista dell'ordinazione al suddiaconato veniva predisposto dalla Cancelleria arcivescovile un fascicolo personale, che documentasse i titoli posseduti dal candidato. Da questo fascicolo traiamo alcune informazioni.
Il chierico Giacinto Coldani risulta residente in Milano, nella parrocchia di San Calimero. Ha i titoli morali richiesti: si è confessato e comunicato nell'anno 1720 due volte al mese, ha svolto nella chiesa di San Calimero "le sue fontioni ecclesiastiche in habito clericale, con la cotta e chierica", partecipando "alla Santa Messa e Vesperi" "e si è diportato laudabilmente". E finalmente veniamo a sapere quali scuole stava frequentando: "Scuola di Lettere. Et è venuto di continuo alla Scuola nostra, dove ha atteso a imparare, e si è diportato costumatamente", firmato "D. Massimiliano Butio, Chierico Regolare di S. Paolo, Maestro d'Humanità nelle Scuole di S. Alessandro". Il Coldani dunque frequentava le scuole tenute dai Barnabiti presso la chiesa di Sant'Alessandro di Milano.
Per essere ordinato era anche necessario che il candidato dimostrasse di avere benefici ecclesiastici sufficienti al proprio mantenimento, eventualmente integrati con parte del proprio patrimonio. Il Coldani aveva ottenuto due benefici ecclesiastici: uno era un "titolo vitalizio di messe sessantotto da celebrarsi all'altare di San Theodoro nella chiesa parochiale di San Satiro" di Milano, alle quali era tenuto il marchese Cesare Brivio; il secondo era un "altro titolo di messe cento e settanta, per la celebratione delle quali" erano "obligati il Priore e Scuolari dell'Oratorio di Vizzolo, membro della Chiesa Prepositurale di Melegnano". Da apposita perizia la rendita dei due vitalizi risultava complessivamente di 257 lire e mezzo, ritenute insufficienti. Per poter essere ordinato, il Coldani aveva aggiunto alcuni beni propri, portando la rendita annua complessiva a 496 lire e mezzo.
Nuova notizia nel 1728. Nell'elenco dei cappellani dipendenti dal vicariato di Melegnano per motivo di beneficio o di residenza troviamo il Coldani: risiedeva a Milano, per ragioni di studio, e si faceva dire le messe nella chiesa di Vizzolo dai frati Serviti di Melegnano. Quali scuole ancora stesse frequentando nel 1728 non sappiamo.
(continua...)
mercoledì 21 gennaio 2009
Meregnanin - Meregnanitt
In compenso il Vocabolario milanese-italiano ed altre quattro opere del Cherubini sono liberamente leggibili e scaricabili da Google libri.
Tra di esse c'è il Vocabolario patronimico italiano o sia Adjettivario italiano di nazionalità, pubblicato postumo nel 1860 a cura di Giovanni Battista De Capitani. Si tratta di un dizionario di aggettivi derivati soprattutto da nomi di luogo, partendo da AARBORGHESE (di Haarborg in Germania) e finendo con ZWONIGRODESE (di Zwonigrod in Dalmazia).
L'opera è interessante per chi studia la storia della lingua italiana, ma qui ne parlo perché vi si trova una curiosa notizia sul nome degli abitanti di Melegnano e di altri luoghi vicini.
A pag. 150 c'è:
MARIGNANESE. Lo stesso che Melegnanese. V.A pag. 152 troviamo:
MELEGNANESE, di Melegnano nel Milanese. (I paesani dicono però I Meregnanitt.) - V. anche MARIGNANESE.Che i Melegnanesi nella prima metà dell'800 chiamassero se stessi Meregnanitt è ribadito nell'introduzione allo stesso Vocabolario patronimico (pag. 8). Il Cherubini, dopo aver constatato la grande varietà delle desinenze usate nei patronimici (ad esempio Bergamasco, Torinese, Aquinate, Romano, Canosino, Bosinco, Alemanno ecc.), cerca di determinare le ragioni che concorrono a tale varietà. Una di esse è la tendenza a conformare la desinenza dei centri minori a quella dei vicini centri maggiori:
Di questa prepotenza abbiamo testimonio in più casi la popolar desinenza dei derivati dal nome di paesi minori conformatasi a quella del maggiore al cui dominio immediato soggiaciono ne' rispetti economici, e così anche in quello del linguaggio. Di fatto il Mortarino si trae seco Lumellino, Trumellino, ec.; il Bosinco, l'Alesaninco, l'Orezzinco; il Comasco ha al suo séguito Argegnasco, Bellanasco, Mandellasco, Tornasco, Varennasco, ec,; il Corfiotto trae seco il Gardichiòto, il Pargagnòto, ec., e così va' discorrendo. Anche nel nostro Basso Milanese que' di Melegnano detti Meregnanitt si obligarono que' da S. Angelo, quei da Landriano e quei da Binasco a chiamarsi Santangiolitt, Landrianitt, Binaschitt, ec.Ed ecco puntualmente le voci.
Pagina 194:
SANTANGIOLINO, di S. Angelo nel Pavese, nel Lodigiano, ec. [La voce è incoerente alla lingua, e i locali dicono I Santangiolitt.]Pagina 138:
LANDRIANESE, di Landriano nel Basso Milanese. (I locali però dicono: On Landrianin, I Landrianitt.)Pagina 75:
BINASCHINO, di Binasco nel Milanese. (I locali dicono i Binaschitt.)Meregnanitt, Binaschitt, Landrianitt, Santangiolitt? Finora davo per scontato che l'unica forma usata fosse quella in -in, al singolare come al plurale. Ma a pensarci un momento, il plurale in -itt non dovrebbe sorprendermi. Ancora oggi a Milano sono conosciuti i Martinitt.
Lo stesso Cherubini ci spiega (pag. 275 della Sopraggiunta al Vocabolario milanese-italiano):
Fanno eccezione alla regola generale dei plurali maschili di cui sopra [cioè che sono indeclinabili] quelli terminanti in all, ell, oll, ull, ètt, in, che al plurale fanno aj, ej, jo, uj, ìtt, itt. [...] Basin, Basellin, Sottanin, Didin, Scarpin, Tinivellin, Guantin, Ollin fanno Basitt, Basellitt, Sottanitt, Diditt, Scarpitt, Tinivellitt, Guantitt, Ollitt. In città abbiamo perduta questa variazione plurale per Giardin, Spin, Pollin; nel contado esiste ancora e dicono Zarditt, Spitt, Pollitt.A metà dell'Ottocento cominciava dunque a perdersi il plurale in -itt. Una ricerca tra i testi degli ultimi due secoli potrebbe dirci quando cessò l'uso di Meregnanitt in favore dell'indeclinabile Meregnanin.
A proposito dei Santangiolini, mia moglie (meregnanina doc) mi assicura che di solito sono chiamati Barasin. Mah...
sabato 27 dicembre 2008
Giacinto Coldani (1)
Per un primo inquadramento partiamo dallo storico Cesare Amelli (1924-2002), che ha trattato del Coldani sia nel Dizionario biografico dei Melegnanesi (1998) sia nella Storia della letteratura melegnanese (2000). Fortunatamente questi testi sono stati pubblicati anche sul web, rispettivamente qui e qui. Ci interessano anche le pagine che nelle stesse opere l'Amelli ha dedicato a Ferdinando Saresani, il secondo storico melegnanese, che nel 1851 si basò sull'opera del Coldani per i propri Cenni storici dell'antico e moderno insigne borgo di Melegnano, stampati postumi nel 1886 (eccole qui e qui).
Avete letto le pagine dell'Amelli? Bene, proseguiamo.
Le notizie biografiche sono piuttosto sommarie e non si capisce quali e quante siano le opere storiografiche scritte dal Coldani. Oltre a un Ragguaglio della chiesa di San Giovanni Battista del borgo di Melegnano, conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, si parla genericamente di manoscritti del 1749 che servirono al Saresani per i suoi Cenni storici del 1851. Evidentemente l'autore non ha fatto ricerche approfondite sul Coldani, cosa del tutto comprensibile in lavori pionieristici che coprono secoli di storia.
Nel preparare la pubblicazione dei manoscritti del Coldani, finora inediti, non potrei accampare per me una tale giustificazione. Ho quindi fatto ricerche nell'Archivio della parrocchia di San Giovanni Battista di Melegnano, nell'Archivio storico della diocesi di Milano e nell'Archivio di Stato di Milano. Altri archivi devono essere consultati (e anche gli archivi già consultati potrebbero riservare ancora qualche sorpresa), ma è già possibile rimpolpare l'Amelli con un bel po' di notizie.
Giacinto Coldani nacque a Melegnano il 16 agosto 1696. Era figlio di Ambrogio e di Domenica Borella. Il battesimo gli fu impartito il giorno successivo dal canonico curato Alessandro Visconti; il padrino fu lo zio paterno Carlo Giuseppe.
Il padre Ambrogio, figlio di Antonio, abitante a Casalmaiocco, si era sposato in prime nozze il 20 gennaio 1693 con Francesca Brazola, abitante a Melegnano, figlia di Matteo Brazzolo e Lucia. Celebrante fu il canonico Baldino Curti e testimoni il canonico don Dionigio Sardi e Gasparo de Massari. Di Ambrogio non ho visto l'atto di battesimo, ma al momento delle nozze doveva essere sui 25 anni. La sposa, chiamata Giacoma Francesca nell'atto di battesimo, era nata il 17 marzo 1670 a Melegnano e aveva quindi quasi 23 anni.
Il 15 marzo 1694 alla coppia nacque un figlio, Antonio Giovanni, ma la madre non sopravvisse. La morte, di cui ignoro la data esatta, probabilmente avvenne fuori Melegnano. Un mese e mezzo dalla morte della moglie, il 4 maggio 1694, Ambrogio si sposò con Domenica Borella nella parrocchia di San Gualtero nei Chiossi di Porta Regale a Lodi, dove la sposa abitava. Era figlia del fu Giacinto e al momento delle nozze doveva avere circa diciotto anni.
Giacinto, secondogenito di Domenica (e terzogenito di Ambrogio), prese dunque il nome dal nonno materno.
In totale, secondo i registri dei battesimi della parrocchia di Melegnano, da Ambrogio e Domenica nacquero nove figli, di cui tre morti in tenera età (una Angela Caterina e due Giovanni Battista):
28-12-1694 Angiola CattarinaGli Stati d'anime conservati nell'archivio della prepositura di Melegnano sono pochi e lacunosi. La famiglia Coldani doveva essere residente nella parrocchia, dal momento che tutti i figli vi figurano battezzati, ma un solo Stato d'anime documenta la presenza della famiglia a Riozzo nel 1708:
16-8-1696 Giacinto
2-10-1698 Giovanni Battista
24-11-1699 Maria Cattarina
11-11-1701 Angela Francesca
9-12-1703 Impolita Giovanna
4-11-1705 Giovanni Battista
23-10-1707 Giovanni Battista
6-5-1710 Anna Lucia
Ambrogio Coldano ccc 40(le c credo significhino confessato, comunicato e cresimato)
Domenica Jugali ccc 32
Antonio ccc 14
Giacinto cc 12
Maria c 8
Francesca 6
Giovanna 4
Giovanni Battista
Angela Genovese, Servit. 35
(continua...)
mercoledì 24 dicembre 2008
Spulciature (1): gli angeli e i vermi
Gli angeli e i vermi
Ho letto di recente il saggio di Luigi Luca CAVALLI SFORZA, L'evoluzione della cultura (Torino, Codice edizioni, copyr. 2008, nella collana Paperback; ma la prima edizione è del 2004). Leggo a pag. 6:
Si poteva dubitare che la Terra girasse intorno al Sole e, magari, continuare a credere che la Luna fosse una forma di formaggio con i buchi, come pensava il protagonista di un famoso romanzo storico di Carlo Ginzburg (Ginzburg, 1976), finché non ci si è andati.
Il libro di Carlo Ginzburg, a cui si fa riferimento, è regolarmente riportato nella Bibliografia a pag. 144: "Ginzburg, C. 1976. Il formaggio e i vermi: il cosmo di un mugnaio del '500. Torino: Einaudi." Dal momento che ne sono fresco di lettura, non ho faticato a cogliere l'inesattezza della citazione.
In primo luogo non si tratta di un romanzo storico; e in secondo luogo il protagonista non pensava che la Luna fosse un formaggio coi buchi: il formaggio c'entra, ma la Luna e i buchi no. Strana svista, da ripartire equamente (credo) tra Luigi Luca Cavalli Sforza, autore, e Telmo Pievani e Elisa Faravelli, "che hanno pazientemente rivisto il manoscritto", come riportato nella prefazione.
Il libro di Carlo Ginzburg racconta la storia vera di un mugnaio friuliano, Domenico Scandella detto Menocchio, di cui ricostruisce la vicenda sulla base principalmente delle carte conservate nell'archivio della curia arcivescovile di Udine. Nel 1583 lo Scandella fu denunciato al Sant'Uffizio per affermazioni in odore di eresia. La sua strana cosmogonia è spiegata da lui stesso all'inquisitore nel 1584, durante gli interrogatori nel carcere del Sant'Uffizio di Concordia:
«Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli; et la santissima maestà volse che quel fosse Dio et li angeli; et tra quel numero de angeli ve era ancho Dio creato anchora lui da quella massa in quel medesmo tempo, et fu fatto signor con quattro capitani, Lucivello, Michael, Gabriel et Rafael. Qual Lucibello volse farsi signor alla comparation del re, che era la maestà de Dio, et per la sua superbia Iddio commandò che fusse scaciato dal cielo con tutto il suo ordine et la sua compagnia; et questo Dio fece poi Adamo et Eva, et il populo in gran multitudine per impir quelle sedie delli angeli scacciati. La qual multitudine, non facendo li commandamenti de Dio, mandò il suo figliol, il quale li Giudei lo presero, et fu crucifisso». E soggiunse: «Io non ho detto mai che si facesse picar come una bestia» (era una delle accuse che gli erano state rivolte: in seguito ammise che sì, forse poteva aver detto qualcosa del genere). «Ho ben detto che si lassò crucificar, et questo che fu crucifisso era uno delli figlioli de Dio, perché tutti semo fioli de Dio, et di quella istessa natura che fu quel che fu crucifisso; et era homo come nui altri, ma di maggior dignità, come sarebbe dir adesso il papa, il quale è homo come nui, ma di più dignità de nui perché può far; et questo che fu crucifisso nacque de s. Iseppo et de Maria vergine». (p. 8-9)
Come si vede, Menocchio non credeva che la luna fosse di formaggio, ma che gli angeli (e Dio stesso) fossero stati generati dal caos primordiale, come dal formaggio sono generati i vermi.
La sentenza, emessa il 17 maggio 1584, condannò Menocchio all'abiura, a compiere varie penitenze salutari, a portare un "habitello" crociato e al carcere a vita. Dopo quasi due anni la pena fu commutata (per buona condotta): lo Scandella lasciò il carcere di Concordia con l'obbligo di non allontanarsi dal suo villaggio, di confessarsi regolarmente, di non parlare delle sue opinioni eretiche e di portare l'"habitello". Ma non riuscì a stare zitto per troppo tempo e il 12 luglio del 1599 ricomparve in stato d'arresto davanti all'inquisitore a Portogruaro. Il nuovo processo si concluse il 2 agosto: la sentenza lo dichiarò "relapso", cioè ricaduto nell'errore. Venne ancora sottoposto ad altri interrogatori (con tortura) per ottenere i nomi dei complici, senza risultato: in realtà Menocchio non aveva complici, avendo elaborato le proprie teorie in perfetta solitudine.
Nonostante la conclusione del processo, la vicenda di Menocchio non era ancora finita; la parte più straordinaria, in un certo senso, cominciò proprio allora. Vedendo accumularsi per la seconda volta le deposizioni contro Menocchio, l'inquisitore di Aquileia e Concordia aveva scritto a Roma, alla congregazione del Sant'Uffizio, per informarla dell'accaduto. Il 5 giugno 1599 uno dei membri più autorevoli della congregazione, il cardinale di Santa Severina, rispose insistendo perché si arrivasse al più presto alla carcerazione di «quel tale della diocese di Concordia che aveva negata la divinità di Christo signor nostro», «per essere la sua causa gravissima, massime che altre volte è stato condannato per heretico». Ordinava inoltre che si confiscassero i suoi libri e le sue «scritture». La confisca avvenne; si trovarono, come abbiamo visto, anche delle «scritture» - non sappiamo di quale natura. Visto l'interesse di Roma per il caso, l'inquisitore friulano inviò alla congregazione una copia di tre denunce contro Menocchio. Il 14 agosto, nuova lettera del cardinale di Santa Severina: «quel relasso... ne' suoi essamini si scuopre atheista», quindi bisogna procedere «co' debiti termini di giustitia anco per trovare i complici»; la causa è «gravissima», perciò «Vostra Reverentia mandi copia del suo processo o almeno sommario». Il mese successivo arrivò a Roma la notizia che Menocchio era stato condannato a morte; ma la sentenza non era stata ancora eseguita. Probabilmente per un tardivo senso di clemenza l'inquisitore friulano esitava. Il 5 settembre scrisse alla congregazione del Sant'Uffizio una lettera (che non ci è rimasta) per comunicare i suoi dubbi. La risposta spedita il 30 ottobre dal cardinale di Santa Severina, a nome dell'intera congregazione, fu durissima: «le dico per ordine della Santità di Nostro Signore ch'ella non manchi di procedere con quella diligenza che ricerca la gravita della causa, a ciò che non vada impunito de' suoi horrendi et essecrandi eccessi, ma co 'l debito et rigoroso castigo sia essempio agli altri in coteste parti: però non manchi di esseguirlo con ogni sollecitudine et rigore di animo, che così ricerca l'importanza della causa, et è mente espressa di Sua Beatitudine».
Il capo supremo della cattolicità, il papa in persona, Clemente VIII, si chinava verso Menocchio, divenuto membro infetto del corpo di Cristo, per esigere la sua morte. Negli stessi mesi a Roma si andava concludendo il processo contro l'ex frate Giordano Bruno. È una coincidenza che può simboleggiare la duplice battaglia, verso l'alto e verso il basso, condotta dalla gerarchia cattolica in questi anni, per imporre le dottrine approvate dal concilio di Trento. Di qui l'accanimento, altrimenti incomprensibile, contro il vecchio mugnaio. Poco tempo dopo (13 novembre) il cardinale di Santa Severina tornò alla carica: «Non manchi Vostra Reverentia di procedere nella causa di quel contadino della diocese di Concordia, inditiato di haver negata la virginità della beatissima sempre Vergine Maria, la divinità di Christo signor nostro, et la providenza d'Iddio, secondo già le scrissi per ordine espresso di Sua Santità: perché la cognitione di cause di tanta importanza non si può in modo alcuno rivocare in dubbio che sia del Santo Ufficio. Però esseguisca virilmente tutto quello che conviene secondo i termini di giustitia».
Resistere a pressioni così forti era impossibile: e di lì a poco Menocchio fu ucciso. Lo sappiamo con certezza dalla deposizione di un certo Donato Serotino, che il 6 luglio 1601 disse al commissario dell'inquisitore del Friuli di essersi trovato a Pordenone poco dopo che vi era «stato giustitiato per il Santo Officio... il Scandella», e di avervi incontrato un'ostessa da cui aveva saputo che «in detta villa... era un certo huomo che era nominato Marcato, o vero Marco, qual teneva che morto il corpo fusse morta ancho l'anima».
Di Menocchio sappiamo molte cose. Di questo Marcato, o Marco - e di tanti altri come lui, vissuti e morti senza lasciare tracce - non sappiamo niente. (p. 146-148)
Per notizie sul cardinale di Santa Severina, si può consultare, per esempio, questa pagina.
venerdì 19 dicembre 2008
Salve a tutti!
Il titolo Melegnano e dintorni indica abbastanza bene gli argomenti che tratterò, in modo più o meno rapsodico (come si addice al medium).
In primo luogo parlerò di Melegnano. Per anni ho fatto ricerche sulla sua storia, soprattutto ecclesiastica, culminate nella mia tesi di laurea Devozione e liturgia a Melegnano nei secoli XV e XVI (la si può leggere e scaricare dal mio sito, quello serio).
I dintorni sono sia reali sia metaforici: divagazioni e scorribande in campi che a volta a volta suscitino il mio interesse.
Spero che quanto scriverò possa piacervi e suscitare i vostri commenti.
Ci sentiamo...